Che casino coi Pierini 3

Parte 3
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Il Pierino di Alvaro Vitali e Marino Girolami è equiparabile al Cannibal holocaust di Ruggero Deodato. Sono entrambi delle creazioni italiane, sviluppatesi per partenogenesi, cioè senza che alcun modello straniero abbia inseminato la loro matrice; e hanno a loro volta prodotto una discendenza immediata, ora legittima (Vitali è andato avanti a propagare il suo Pierino, Deodato ha fatto Inferno in diretta) ma in gran parte spuria. L’incredibile pioggia di denaro che li ha irrigati, Pierino qui, Deodato in tutto il mondo, fu la causa del germogliare rigoglioso dei numerosi polloni laterali. Rigoglioso e immediato. Quando ancora Vitali & Co. dovevano uscire con il secondo film, Pierino colpisce ancora, alla fine di dicembre del 1981 passò in censura Pierino il fichissimo, prodotto da Amati, diretto da Sandro Metz e scritto da Dardano Sacchetti – sarà certamente casuale, ma stupisce che intorno al ciclo pierinesco girino i grandi nomi dell’horror italiano, da Gianfranco Clerici, l’uomo che scrisse Cannibal holocaust, a Sacchetti che in quel mentre congegnava i capolavori fulciani.

In sceneggiatura Pierino il fichissimo si intitolava Osteria numero Mille ed era concepito come una raccolta di barzellette filmate in cui ricorre la figura di Pierino ma non solo quella; ci sono anche i carabinieri, i gestori dell’osteria del titolo e un paio di camionisti tra i quali ripartire storielline, battute e battutacce. Anzi, a ben considerare, la pierinità, l’ousìa pierinesca, è quella che occupa meno spazio nel tutto, affidata ai mezzi comici non eccelsi di tal Maurizio Esposito che sarebbe diventato noto (famoso è troppo) come conduttore di programmi per i più piccoli. La forza che il personaggio ha, gliela dona, peraltro, il doppiaggio di Massimo Giuliani, perché come look questo Pierino che se ne va in giro su un grosso triciclo e reca seco uno zaino con distributore di carta igienica in bella vista, risulta anonimo. La linea scolastica è sparuta: solo qualche scena in classe dove Pierino duetta con la maestrina polposa (ma mai nuda) Eleonora Cajafa, che nella finzione scenica è la ragazza di suo fratello (Vincenzo Crocitti).

Il grosso del peso comico del film grava sui due gestori dell’Osteria numero 1000, Gianni Ciardo e Adriana Russo, pugliesità e romanità spinte, e su Sandro Ghiani, carabiniere sardo fidanzato con la Russo, il cui superiore è Nino Terzo che ha una moglie, Alessandra Vazzoler, afflitta da incontinenza sfinterica, vale a dire che scoreggia a più non posso. E così il cerchio si chiude. Anzi no, perché restano il Tognella e Tuccio Musumeci, i due camionisti (la migliore che gli mettono in bocca è quella del gorilla che si è inculato Musumeci e il Tognella lo consola dicendogli che tanto il gorilla non parla. «E nemmeno scrive! Da un mese non mi ha mandato nemmeno una cartolina!», vecchia come il cucù ma sempre efficace); e resta una coppia di sposini novelli, lui imbranato, lei vogliosa, Diego Cappuccio e (Ales)Sandra Canale, mora, gnocchissima, spesso a tette di fuori e ancora di là dal diventare una delle annunciatrici storiche della Rai negli anni Novanta. Entrando in gara con il modello di Vitali, la legge era giocare al ribasso, quindi scoregge, scurrilità, aiscrologia, sesso. E a costo di rendersi impopolari, va detto che l’amalgama tiene bene, che il film è ritmato e che gli interpreti sono scelti sagacemente per ciò che devono e possono dare – i migliori sono Ciardo e la Russo, molto generosa di sé e ciò non guasta. Eppure: “Un lercio miscuglio di battute oscene e volgari” è la formula con cui lo sunteggia un utente del Davinotti – non del sito dei proseliti di Bergman –, scioccato da una battuta di Pierino su un “nano… con un cazzo così” e su “un panino di merda”; e anche il resto dei commenti lo rade al suolo, allineandosi al giudizio del Mereghetti, il quale scrive di ritenerlo opera “per cerebrolesi”. Gli opposti – apparenti – che in realtà coincidono.

 

PIERINO LA PESTE ALLA RISCOSSA

Se assumiamo come cartina di tornasole il gusto dei Pierino dipendenti così come si manifesta in Rete, dovremmo concludere che il migliore dei film apocrifi sia quello di Umberto Lenzi, Pierino la peste alla riscossa, nei cinema all’inizio del 1982. Prodotto dalla Flora e dalla Fulvia Film, quindi niente affatto miserrimo, vede anche in questo caso in sceneggiatura la firma di Dardano Sacchetti – con Giorgio Mariuzzo – e in parte la filosofia è analoga al film di Metz nel mescolare le barzellette di Pierino a quelle sui carabinieri ma anche – novità – sui matti, perché Renzo Montagnani interpreta uno schizofrenico che a più riprese irrompe sulla scena sabotando le situazioni e venendo infine ridotto in camicia di forza da Valerio Isidori e altri infermieri del manicomio. Il motivo per cui i fan lo mettono come secondo Pierino dopo i Vitali, sta molto probabilmente nel fatto che si tratta di un vero Pierino: Giorgio Ariani è un succedaneo degno di Alvaro, quantomeno per la fisicità invadente, per la vitalità (Vitalità), per l’energia comportamentale, per la velocità e il tempismo delle battute. Grasso, grosso, ma al contempo infantile nel tono della voce, Ariani ha dalla sua la potenza di questo ossimoro e il plus valore, per ottimamente incarnare sullo schermo il puer senex delle barzellette, dato dalla parlata toscana – nel film ci si gioca su questo, sul mistero di un bambinone che ha l’accento di un buttero in una famiglia romanaccia – e dalla capigliatura alla Pierino porcospino (vedi prima puntata di questo speciale).

Perché Pierino è il suo corpo difforme, e ciò che dice è emanazione che procede direttamente dal suo essere quell’oggetto materiale perturbante, apparente disordine della Natura, dell’Universo, che non può non esprimersi al di fuori di leggi e convenzioni stabilite. Come rafforzativi di Ariani, ed esaltatori della sapidità, vengono inseriti altri due corpi potenti: Mario Brega nel ruolo del padre e Lella Fabrizi in quello della nonna di Pierino (la quale canta con Ariani la sigletta: “Ahi ahi Pierino, tutto questo non si fa, prendi pei fondelli questa nostra società”…) e questo fa talvolta l’effetto di un’overdose di battute e di verve che nuoce al confronto con altre parti più piane e persino piatte del film. La differenza con il Pierino di Girolami sta proprio in questo: che i continuatori, e Pierino la peste colpisce ancora tra loro, non riescono a reggere l’intera durata della narrazione con uno slancio costante.

A un certo punto si afflosciano e l’accumulo di situazioni va avanti a scatti, smarrendo il ritmo, la fluidità. I Pierinocultori apprezzano l’orecchiabile canzoncina sui titoli di testa (fatti a disegni, come nei Girolami), il fatto, messo ben in evidenza da un cartello finale, che i dialoghi siano rigorosamente in presa diretta, e il ritorno al milieu scolastico, con la maestrina appetitosa (Jenny Tamburi, che però non si spoglia), l’insegnante imbecille (Giacomo Rizzo, al quale combinano scherzi tipo incollargli il sedere alla sedia della cattedra) e la direttrice mostruosa (Adriana Facchetti). Brega è un farmacista, sicché qualche gag con la tipologia barzellettiera del caso viene infilata – ma la battuta della signora affetta da dissenteria che ha usato il limone, cioè se lo è infilato nel culo («Se non funziona, provi con l’arancio») è al livello, sotterraneo addirittura, del carabiniere che in Pierino il fichissimo cercava di tagliare l’acqua con le cesoie per vedere se fosse potabile. Lenzi non lo ricorda con piacere e a Nocturno raccontava di vergognarsene e di avere accettato di farlo per puro bisogno. A sua firma si è visto ben di peggio.

 

CHE CASINO… CON PIERINO!

Che casino… con Pierino! di Bitto Albertini costituisce qualcosa di differente. È uno di quei portali che si aprono, ogni tanto, nel cinema italiano, di genere ma non solo di genere, e che conducono, lungo una corsia preferenziale, direttamente nel Paese dei Mostri. Sono gli equivalenti dello specchio in Alice. Zone di passaggio verso un regno dove le leggi sono sovvertite e l’impossibile diventa possibile. Non che di mostri nelle pellicole finora considerate non ve ne fossero, ma qui transitiamo a una scala di mostruosità superiore, compiamo un salto di qualità sensibile.

Qualità: perché a costo di ripetere uno slogan abusato, tanto il bello quanto il brutto supremo sono esiti di un eguale sforzo della Natura e rappresentano qualità raggiunte. Albertini, pace all’anima sua, non c’è più e nel suo libretto di memorie non ha purtroppo lasciato ricordi su questo film, prodotto da Roberto Bessi con l’Anaconda Film, che si presentava difforme e deforme fin dalla locandina, con il protagonista che regge Playboy (versione americana), fa il segno della vittoria e intorno ha nuvolette fumettistiche con dentro la bonona di turno, Antonella Prati – fidanzata di Pierino –, Nino Terzo – zio, barista, di Pierino –, e Italo Vegliante – amico di Pierino e soprannominato “Pantera”. Partiamo da Vegliante, che se lo merita: le recenti apparizioni a Stracult lo hanno fatto conoscere a quanti se l’erano perso nei film e nei programmi tv degli anni Ottanta, in cui metteva a frutto le sue doti di fantasista – un tempo li definivano così –, che poi consistevano nel suonare la chitarra e produrre versi, fischi, trilli e frullii con la voce. Una specie di altro Alfred Thomas, ma magro inchiodato e detto “Pantera” perché capace di mimare le movenze del cartone.

Il corpo-mostro di Vegliante possedeva, quindi, valenze perfette per propagare con degnità la tradizione dei Pierini di Vitali e Ariani: ma le intelligenze operanti di Che casino… con Pierino!, purtroppo, si lasciarono scappare l’occasione di un simile colpo e gli preferirono Roberto Gallozzi, classe 1960, ex bimbo prodigio del cinema italiano, attore in un frego di commedie dell’epoca, fotografo e oggi manager di supermodelle – ha un sito ufficiale e sembra un tipo simpatico. Pantera diventa invece l’amico di Pierino, anche se gli viene lasciato ogni tre per due campo libero per esibirsi nelle sue performance, tutte filmate in mezzo alla strada, alla bell’e meglio, con una fotografia grezza e senza luci, da cinema verità/varieté. Un’esecuzione sommaria, spartana, dotata di quelle medesime valenze ipnotiche che contraddistinguono i passaggi più squallidi e perciò più sublimi del cinema coevo di Alberto Cavallone. Il plot appartiene allo stesso Albertini e comincia dal momento in cui Gallozzi/Pierino, terminata la scuola, fa il gesto dell’ombrello all’istituzione perché per lui da quel momento si apre il mondo del lavoro.

Per quasi dieci minuti, questo inizio prevede una voce off che recita le gesta pierinesche in forma di filastrocca con rime baciate, sulle immagini di Gallozzi che bighellona per le strade in bicicletta. Dopodichè, il film si tuffa immediatamente nel basso corporale e ci galleggia beatamente fino alla fine. Le barzellette più grevi su Pierino, quelle che nessun altro aveva avuto il coraggio di mettere in scena, Albertini le fa sue: storielle di pippe fatte nel buio del cinema scambiando il beneficiario del servizio, piuttosto che movenze oscene che dovrebbero significare altro da quel che in realtà vogliono dire, quando Pierino, lavorando come garzone nel bar dello zio, porta la colazione a casa a un’americana arrapata. I gay sono un bersaglio elettivo e la migliore è quella del tizio che nel bar di Nino Terzo dice che vorrebbe essere un calciatore, per poter sbagliare un tiro a porta vuota e sentirsi mandare a fare in culo da tutto lo stadio.

A proposito di Terzo: grande mostro anch’egli del cinema bis italiano, nel film è preso di mira dai fratelli Martana, Luciano e Marcello (la moglie di Luciano, Giusy Valeri, interpreta una sguaiata serva ciociara), due avventori del suo locale che ogni mattina lo traggono in inganno dicendogli che gli portano i saluti di Gargiulo e alla domanda: «Chi è Gargiulo?» rispondono al povero, ingenuo, asmatico: «Quello che te lo mette in culo!». Sembra una sciocchezza ma genera un riso incontrollato perché Terzo, ogni volta, finisce per domandare: «Ma chi è Gargiulo?» e anche quando con la moglie cassiera Mara Mays studia una contromossa per fregare i due clienti, resta ugualmente vittima del tormentone. Il clima del tutto richiama alla mente il mondo retrostante al personaggio di Picchio/Ugo Tognazzi in Primo amore di Dino Risi. Un passato di sublime grevità, quello dell’avanspettacolo di terzo e quart’ordine, che o era così o non era, e che ancora negli anni Ottanta trovava il canale per spingere le sue propaggini dentro incredibili forme cinematografiche, a esso evidentemente omogenee, come quella di Che casino… con Pierino! Uscì nei cinema, verosimilmente pochissimi, nel maggio del 1982.Capolavoro assoluto, per noi, glorificato anche dalla colonna sonora di Nico Fidenco. Per I Cahiers du Davinotti è un “terrificante sotto-prodotto”. Il Mereghetti nemmeno se lo fila – ma Pierino lo direbbe in modo diverso…

 

QUELLA PESTE DI PIERINA

«Che cosa è una vergine?»; «Una bambina di tre mesi, ma brutta, brutta, brutta e con lo zio paralitico»; «Qual è il plurale di sesso?»; «Orge». Domande poste dalla virago femminista Francesca Romana Coluzzi insegnante di ginnastica alle quali replica siffattamente la vedette di Quella peste di Pierina, Marina Marfoglia. Come presentazione non è affatto male. Ci si doveva arrivare, all’idea di un Pierino al femminile. E ci si arrivò. A febbraio del 1982 quest’altro clone del film di Girolami appare praticamente in contemporanea con Pierino colpisce ancora. È il terzo degli spuri, cronologicamente, e – cosa curiosa – contiene una mezza dozzina di barzellette sceneggiate che ricompaiono poi nell’ultimo Pierino di Albertini: ad esempio, la gag del tizio pelato schiaffeggiato a più riprese («Giovanni, ma lo sai che in strada c’è uno proprio come te?!»).

È anche vero che, a sua volta, ritroviamo qui la battuta sulla iena ridens («Mangia escrementi e cadaveri e si accoppia una volta all’anno! Ma che c’avrà da ridere?») sentita anche in Pierino la peste colpisce ancora. Il produttore Riccardo Billi, lo sceneggiatore Piero Regnoli, il regista Michele Massimo Tarantini e la protagonista, la summenzionata Marfoglia, cantante (ma l’orecchiabile canzoncina della sigla la canta Ro Malladro), soubrette e attrice cresciuta in seno al Bagaglino, costituiscono la formula alchemica del film. La Marfoglia suggerì di coinvolgere anche Oreste Lionello, nel ruolo di un professore nazistoide con una mano posticcia, detto “Il Tigre”, e non mancano mostri efficaci come Adriana Falco nel ruolo della nonna di Pierina e Jimmy il Fenomeno che fa il bidello, mentre la madre è Clara Closimo – il padre non c’è. Che sia un’operazione di arrembaggio al successo di Vitali, non ci piove, ma nello stesso tempo la presenza e il tocco di Tarantini, uno dei reucci della ginecommedia e nemmeno tra quelli con la mano più greve, riconducono il film nell’alveo di uno scolastico tradizionale e al genere classico modello Dania. Non che ci si sottragga al petocentrismo del caso – qui il corpo realmente pierinesco, radiante, che esibisce le funzioni basse, appartiene a Lucio Montanaro, vestito alla Vitali, compagno di scuola e innamorato di Pierina, il quale, in una sequenza da antologia, fa letteralmente volare la prof di ginnastica con una scoreggia –, ma il plot evita lo scurrile troppo spinto e sulle situazioni osée, piuttosto che sguaiare, cesella come farebbe in un film con la Fenech o Gloria Guida. Pierina ha infatti una sorella bonona interpretata da Carmen Russo, i cui incontri con vari amanti (il carabiniere, il bersagliere…) vengono spiati dal buco della serratura, letteralmente. In una scena anche la Marfoglia che si spaccia per la sorella ha modo di sfoderare tutto il suo potenziale sexy, che resta altrimenti confinato sotto un’acconciatura e un look da Pippi Calzelunghe.

Quella peste di Pierina non ha la torbida bellezza di quel cinema denudato di tutto, povero e sporco, di Che casino… con Pierino!, ma è un esemplare proteiforme nella saga, ora commedia depurata ora avanspettacolare anch’esso, ora volgare ora più in punta di fioretto e la Marfoglia è una figurina scattante ed elettrificata, codini rossi e giarrettiere azzurre, che non può non risultare simpatica, soprattutto quando le escono con naturalezza le battute più trucide («Voglio sapere cosa deve avere lo uccello per essere perfetto!» domanda Il Tigre; e lei: «Du’ palle così!», facendo anche il gesto). Di diverso avviso i maîtres à penser del fandom:  “Il peggior derivato della serie”; “Veramente imbarazzante”; “Pessimo”; “Il film non vale niente, lo zero assoluto”. Non ci è dato sapere cosa ne pensino il Mereghetti o il Morandini, ma è supponibile che anche su questo film pubblico specializzato e critica generalista si trovino perfettamente d’accordo.

 

I PIERINI MAI FATTI E I TAROCCHI

Nel dicembre del 1981, Angelo Pannaccio aveva presentato al ministero i documenti per la denuncia di inizio lavorazione di un film intitolato: Caro diario, quaderno 1: Io sono Pierino. La società produttrice era la Cinitalia Television di Pannaccio. Eccone la sinossi: “Pierino è molto contrariato, è appena uscito dal cinema sbigottito, non riesce a capire come abbiano potuto fare un film su di lui: solo lui è Pierino, i suoi occhi, la sua bocca, i suoi capelli disordinati e biondi come Pierino: “Come hanno potuto?”. Pensando questo si volta a guardare il cartellone pubblicitario e rivolto al gaglioffo fa un gesto portando la mano sinistra sul braccio destro, dicendo ad alta voce: “Bèccate questo!” – nota: sembra lo stesso inizio di Che casino… con Pierino!, con il cinema al posto della scuola! Torna a casa, entra furtivamente nella sua cameretta e badando che nessuno lo veda, estrae un quaderno da sotto il letto e con fare circospetto comincia delicatamente a sfogliare le pagine scritte. Povero Pierino, il suo diario è lì, nessuno lo ha visto né toccato, ma come avrà fatto “Quello”.

“Questo è Pierino” comincia così a rileggere dal principio le sue esperienze gelosamente custodite nel suo diario”. Pannaccio presenta nello stesso momento anche un secondo film e un terzo su Pierino, a costituire un trittico consequenziale come si arguisce dai titoli, che sono Caro diario, quaderno 2: Pierino la peste (che poi però verrà cambiato e diventerà: Quella femminuccia di Pierino) e Caro diario, quaderno 3: La sapete l’ultima? Anche della seconda e della terza parte vengono fornite le sinossi, che in realtà sono piuttosto degli scheletri di trama: nel numero due, Pierino schizza via dalla classe al termine dell’orario scolastico, saluta i compagnucci con un “Ciccia secchioni!” e non smette di correre se non quando è arrivato a casa, nella sua camera. Chiude a chiave la porta, estrae da sotto il letto il diario e si accinge quindi a scrivere tutto quel che gli è capitato quella mattina a scuola. La sapete l’ultima? si ambienta nella casa di Pierino, un pomeriggio durante il quale ha invitato i suoi amici a una piccola festicciola. “I ragazzini allegri chiacchierano spensieratamente e come sempre Pierino, con la sua simpatia e scaltrezza, tiene banco, infatti sono tutti attorno a lui e lo ascoltano. La M.D.P. si avvicina fino a inquadrare Pierino in primo piano e sentire ciò che dice: “La sapete l’ultima?”…”.

Nelle carte ufficiali si legge che l’interprete di Pierino doveva essere Luca Fava, che il soggetto e la sceneggiatura appartenevano a Pannaccio, che il direttore della fotografia era Ernesto Lenzi e che le musiche le avrebbe composte Piero Umiliani. Esisteva già un accordo con una distribuzione, la Lark, ma nessuno dei tre film vide mai la luce. Purtroppo. Perché un Pierino di Pannaccio, anzi addirittura una trilogia, avrebbe probabilmente costituito un prodigio cinematografico senza eguali. Da ultimo, non possiamo poi passare sotto silenzio il caso di un film che preesisteva al film di Girolami ma che le prestidigitazioni del bis italiano trasformavano, sia pure solo con il solo doppiaggio, in un ulteriore Pierino spurio: Pierino aiutante messo comunale… praticamente spione. Il suo status iniziale era quello di una commedia erotica con Laura Gemser, dal titolo L’infermiera di campagna diretta (vabbè…) da Mario Bianchi nel 1980.

Una specie di cialtronesca – questa sì – variazione sul tema di Peppone e Don Camillo con il corpo erotico/esotico della Gemser gettato in mezzo a una ridda di mostri in un paesotto ciociaro. Una minchiata che è riuscita comunque a essere esportata in mezzo mondo, per via della Gemser che trascinò nel film anche Gabriele Tinti. Girato in doppia versione, soft e hard (ma quest’ultima non la si conosce se non per sparsi membri contenuti in altri film), a un certo punto (1982) venne rieditato nella fase post-pierinesca con la gabola del titolo e degli aggiustamenti in doppiaggio che attribuiscono a uno degli attori, Tony Raggetti, il nome di Pierino. Raggetti è su Facebook con una pagina in cui si qualificava “artista” e siffattamente si presenta: “Ciao sono Tony Raggetti made in Italy, artista, attore, cinema Pierino messo comunale praticamente spione, musicista, cantante, genere rock metal elettronico…”. Mettetegli subito un like….