Cannibal Holocaust: più vero del falso, più falso del vero

Il sottile confine tra verità e finzione nella meta-cinematografia
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«Quando andammo a girare in questo posto, mandai qualcuno a noleggiare sacchi di iuta pieni di ossa, finte chiaramente, in plastica, da aggiungere alle ossa vere, perché desse proprio l’idea, il tutto, di una catacomba molto macabra. Quindi riempimmo tutti i loculi con questo materiale affittato. Finito di girare la sera, dissi: «Levamo tutte le ossa e portamole via…». Quello che fece questa raccolta di ossa, però, prese tutto, pure le ossa vere. E io mi sono trovato ‘ste ossa vere di cristiano, insieme a quelle finte, e le ho seppellite tutte in un terreno che ho vicino a casa. Quando avevano riconsegnato le ossa finte, quelli hanno dato una capata, hanno visto che c’erano pure le ossa vere e gliele hanno tirate… per cui poi hanno raccolto le ossa vere e le hanno riportate a me… e io mi sono ritrovate tutte queste ossa per casa. Quindi ho costruito un piccolo ossario… Anzi, se un giorno volete fare un pellegrinaggio…». Aristide Massaccesi.

L’effetto Droste è ciò per cui all’interno di un’immagine viene posizionata la stessa immagine ma in scala ridotta, che può contenere a sua volta un’immagine ancora più piccola, e via diminuendo, in una fuga virtualmente infinita. È il concetto delle matrioske, le bamboline più piccole contenute in quelle più grandi. Quelli che parlano forbito lo definiscono messa in abisso, prendendolo a prestito dal mondo dell’araldica. Anche nel cinema esiste l’effetto Droste, nella misura in cui un film contenga al suo interno un film “in scala ridotta”. Pensiamo a quando in Demoni di Lamberto Bava nel sala maledetta si proietta la pellicola sulla scoperta della tomba di Nostradamus. O a quando nel sequel Demoni 2, in tv viene trasmessa la fiction con i ragazzi che entrano nella zona morta. Adesso pensiamo invece a Emanuelle in America di Joe D’Amato, alla scena di Roger Browne che mostra a Laura Gemser, Emanuelle, il filmino in super 8 in cui dei soldati stuprano, seviziano, sventrano e macellano alcune prigioniere. Vedendo i film nei film di Demoni, a nessuno viene per il capo di assistere ad altro che a della finzione. Il linguaggio non cambia rispetto al resto della storia. Vedendo lo snuff di Emanuelle in America, invece, a molti – compreso il sottoscritto, all’epoca – può pure balenare il tremendo sospetto che ciò che sta guardando possa non essere finto ma documenti una sconvolgente realtà. Il linguaggio cambia, in quel momento, rispetto al resto. Massaccesi predispone un filmato che, tecnicamente, ha tutte le caratteristiche di una ripresa semi-amatoriale in super 8: le inquadrature lunghe, quasi dei piani sequenza, senza stacchi, traballanti, la pellicola piena di graffi e così via. Quello snuff è un effetto Droste particolare, in cui un’immagine fasulla ne contiene una ridotta, egualmente fasulla – è ovvio – ma che gioca sull’ambiguità di poter essere qualcosa di reale. E che vince la sua scommessa contro l’incredulità.

Il 17 novembre del 1961, Michael Rockefeller, un antropologo ventitreenne figlio del senatore repubblicano Nelson Rockefeller, scompare in Nuova Guinea. Il catamarano a bordo del quale viaggia con un collega olandese, si ribalta e si schianta. Dopo avere trascorso la notte attaccato al relitto, Rockefeller decide di tentare di raggiungere la riva del golfo dove ha fatto naufragio. Si lega due taniche e inizia a percorre a nuoto i quindici chilometri che lo dividono dalla terraferma. Non si avranno mai più sue notizie, e verrà dichiarato legalmente morto nel 1964, mentre il suo compagno è tratto in salvo da una missione di recupero. Qui finisce la cronaca e inizia la leggenda, che vuole Rockefeller vittima ora dei cannibali, ora dei tagliatori di teste o che lo immagina sopravvissuto al seguito di un simil Kurz nel cuore della giungla. La storia di Rockefeller c’entra, sillogisticamente, con The Blair Witch Project (1999) nella misura in cui c’entra con Cannibal holocaust (1980) di Ruggero Deodato, che fin da subito molti vollero come il vero modello ispiratore del film di Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez e che lo sceneggiatore Gianfranco Clerici scrisse a partire dalla suggestione proprio della vicenda di Rockefeller. Due film, la Strega e i Cannibali, in cui l’effetto Droste con la sua vertigine concettuale, con l’ambigua e tenebrosa fuga di specchi che abbiamo detto valere in un caso come quello di Emanuelle in America, viene portato alle estreme conseguenze. Soprattutto nella Strega, dove non esiste più un film finto contenente un film che potrebbe essere vero, ma esiste solo qualcosa che ha tutta l’aria di essere vera e che ci viene venduta come vera: come materiale girato e ritrovato che documenta quanto accaduto a un gruppo di ragazzi addentratisi nei boschi per indagare su una leggenda malefica.

Sul rapporto genetico tra Strega e Cannibal non si è mai capito bene e non si capirà mai come possano essere andate effettivamente le cose. Sanchez in particolare, che visse a lungo in Europa e che pare fosse appassionato di cinema bis, era difficile non conoscesse il film di Deodato. Myrick, da parte sua, dichiarò che Cannibal holocaust lo aveva scoperto – entusiasticamente – soltanto dopo che The Blair Witch Project era uscito, quando i fan gli avevano fatto notare le analogie col suo film. Sono due cose, la Strega e i Cannibali, in maniera diversa epocali. L’una, la Strega, rappresenta un grande punto di partenza, la rampa di lancio di parecchio del cinema che si è sviluppato da quindici anni a questa parte. La Strega ha una responsabilità estetica tremenda – non voglio usare l’aggettivo in senso negativo ma piuttosto ominoso, accentuativo – che è divenuta anche contenutistica, nella misura in cui l’acronimo POV (Point of view) non indica più soltanto una tecnica ma si è trasformato nella sigla e nella cifra di un genere vero e proprio. È una grammatica che si è fatta sintassi, frase e pensiero, anche quando il pensiero resta vuoto, inerte. È la forma che è sostanza, perché racconta cose che potrebbero essere davvero successe e questo basta e avanza. Perché quei soldati potrebbero davvero aver massacrato quelle povere donne. Perché quella strega misteriosa potrebbe davvero avere sterminato chi si era messo sulle sue tracce. A Cannibal holocaust va riconosciuto, al contrario, il valore di un traguardo, di un punto di arrivo: era la somma in estremo di tutta quanta la filosofia del falso cinematografico che mira ad essere più vero del vero (o più falso del vero o più vero del falso: ogni possibile, vertiginosa combinazione dei concetti è compresa nel prezzo), nata nella culla dei mondo-movie italiani degli anni Sessanta, con Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi. Quando Gianfranco Clerici sceneggia il film di Deodato li ha lì ben presenti, perché erano il lessico familiare minimo per chiunque scrivesse e facesse cinema di un certo tipo e su certi argomenti, e a loro evidentemente allude nella personalità di Alan Yates e dei suoi compari di massacro. Poiché Cannibal holocaust è, sfrondato da tutto, L’occhio selvaggio di Paolo Cavara rifatto dieci anni più tardi; Cannibal holocaust sono i cadaveri insepolti, sono le ossa vere che si mescolano con quelle di plastica che i mondo, le inchieste, i film verité, hanno lasciato sulla propria strada e con cui, a ogni decade, qualcuno si sentiva costretto a tornare a fare i conti.