Ballad in Blood, un concerto di sangue

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A 23 anni di distanza dal suo ultimo film per il cinema, Vortice mortale (1993), Ruggero Deodato torna dietro la macchina da presa per raccontare una nuova storia di sangue e sesso estremo. Il titolo per l’estero è Ballad in Blood, perché, spiega lo stesso Deodato: «È una sorta di concerto di sangue, con questo angelo dell’inferno che balla soave all’interno di un mattatoio. Il titolo è piaciuto subito e spero di riuscire a tenerlo anche in Italia». La genesi di questa nuova fatica di Monsieur Cannibal è storia antica, che affonda le radici in uno dei fatti di sangue più controversi della cronaca nera degli ultimi anni: l’omicidio di Meredith Kercher, avvenuto a Perugia la notte di Halloween del 2007. «Mi aveva colpito, prima di tutto, l’internazionalità della storia», dice Deodato, «e poi la bellezza di questa ragazza, Amanda Knox… Poi il fatto di avere colpevolizzato un nero perché si dice che lei credeva che i neri avessero tutti lo stesso DNA, mi intrigava… Insomma, c’erano tante cose: anche ‘sto giovane fidanzato che non si sapeva chi era o chi non era». E poi, naturalmente, c’era il discorso pruriginoso che, in un modo o nell’altro, ha sempre intrigato il regista, da Zenabel (1969) a Ondata di piacere (1975), fino a Minaccia d’amore (1988). «Mi hanno raccontato», conferma Deodato, «che nell’Erasmus ci sono ragazzi e ragazze, a Siviglia, che fanno delle cose pazzesche…  sessuali, non dormono proprio mai, e questo mi interessava parecchio. Solo che la storia l’ho voluta cambiare, perché forse sono rimasto sedotto anche io da questo angelo del male, chissà…». La storia (scritta dallo stesso Deodato con Jacopo Mazzuoli e Angelo Orlando), è quella di tre studenti, Elizabeth con il fidanzato Jacopo e un loro amico nero, che il mattino, dopo una lunga notte di Halloween consumata tra abusi di droga e alcol, trovano il cadavere della loro compagna di stanza, Lenka, con la gola squarciata. Anzi, il corpo precipita davanti ai loro occhi da un lucernario sfondato, lasciandoli in preda allo sgomento e alla paura. Solo Elizabeth sembra non essere troppo impressionata dal ritrovamento e convince gli altri due a non chiamare la polizia. Prima devono capire cosa sia successo, visto che la memoria della sera precedente è completamente cancellata dagli eccessi. Chi può aver compiuto quello scempio? Possibile che siano stati loro in preda  all’eccitazione dei sensi?

Da qui, per i tre inizia una lunga discesa agli inferni nel disperato tentativo di scoprire una verità che potrebbe dannarli per sempre. Proprio come in Cannibal Holocaust, durante questo viaggio a ritroso nella memoria, i giovani cercheranno le risposte di quella tragica notte degli orrori nel found footage, nelle immagini delle videocamere e dei telefoni che, forse, nascondono un agghiacciante verità. Insomma, Deodato strizza l’occhio a se stesso e anche all’imperante moda dei Paranormal Activity, ricordandoci – come se ce ne fosse il bisogno – che è stato lui il vero precursore di un genere che è diventato la moda negli anni 2000. Ma non c’è da preoccuparsi, perché Ballad in Blood non è un POV e l’utilizzo del found footage è contenuto e centellinato alla maniera di Cannibal Holocaust. «Questo è un film che mi ha molto divertito fare», ammette Deodato, «e avendo avuto tanto tempo a disposizione per prepararlo, quasi due anni e mezzo, ho avuto la possibilità di approfondire, di mettere delle cose in più rispetto alla prima stesura. Ho messo delle “tarantinate”, delle cose a effetto, come una donna che precipita dall’alto e si sfonda il cranio sul selciato, e anche delle cose divertenti fatte dagli studenti. Mi sono ben documentato, guardando centinaia di video caricati su YouTube, per rubare lo spirito dei giovani moderni. Per questo ho preteso una troupe di ragazzi, che è stata eccezionale. Mi seguivano ovunque, chiamandomi “Maestro” e mi hanno encomiato dalla mattina alla sera, sempre pronti ad ascoltare e a dare il loro parere».

Pur essendo un film corale, in Ballad in Blood gli occhi di Ruggero Deodato erano tutti per lei: Elisabeth, l’angelo del male, interpretata dalla rivelazione Carlotta Morelli. «Sì», ci tiene a precisare il regista, «lei mi ha sedotto per davvero. Mi sono invaghito sia del personaggio sia dell’attrice. Questa ragazza, spregiudicata e cattiva, per me rappresenta l’anima perversa del film. L’unica che veramente mi interessava. Gli altri sono succubi di lei. Quando ho incontrato Carlotta le ho detto: “Tu devi fare Amanda Knox, una che faceva pipì davanti a tutti, si puliva il culo e buttava la carta per terra, andava a fare l’amore senza neanche chiudere la porta. Era questo il personaggio. Tant’è che il primo giorno mi spaventai. Io stavo già con la pena del nero, che non aveva mai fatto l’attore, e Carlotta, dopo avere fatto un piccolo nudo, venne da me  a chiedermi quanti ne avrebbe dovuto ancora fare. Lì mi sono gelato. Ho pensato: “Se questa mi fa storie, sono rovinato”; così non le ho parlato per tutto il giorno; l’ho ignorata e ho cercato di muovere il nero che però si sentiva troppo osservato e diceva: “Ma che vuole Deodato da me?” Ero nel panico più totale. La mattina dopo, Carlotta è venuta e mi ha detto: “Scusami per ieri, farò tutto quello che mi chiedi”. Lì ho respirato. Comunque, devo dire che Carlotta Morelli è un cavallo purosangue, di una bravura unica… Mi commuovo ogni volta che la vedo recitare».

Una volta risolto il problema dell’attrice protagonista, il resto del cast è stato fatto in totale libertà, scegliendo sempre volti poco noti o alle prime esperienze per garantire quell’autenticità che fu anche parte del successo di Cannibal Holocaust. «Arrivavo dai casting fatti per le fiction», racconta Deodato, «dove hai un elenco e devi prendere questo e quell’altro perché sono personaggi legati a qualche dirigente o a qualche politico. Qui invece ero io a scegliere, come nei film “normali”. La cosa strana è che non ci ho impiegato tanto. Cioè, la maggior parte degli attori li ho scelti due anni e mezzo fa, ma sono tutti rimasti ancorati al progetto, perché è piaciuta la sceneggiatura; è piaciuta a tal punto che loro avevano paura di non poterlo fare per gli impedimenti che potevano sorgere nell’attesa. Gli ultimi attori che ho scelto sono stati quelli per il ruolo del nero e della morta. Il nero l’ho trovato per caso, perché è uno che si interessa di turismo e non aveva mai fatto niente. Il suo nome è Edward Williams. Lui era quello che più mi spaventava, perché aveva sì il fisico giusto ma la faccia troppo bonacciona. Non avevo trovato altre opportunità per cui mi sono detto: “Adesso come faccio? Riuscirò a muoverlo?”. E ci ho messo due giorni, perché lui non aveva fiducia in sé, andava dicendo a tutti: “Non sono un attore, è inutile che Deodato insista così tanto!”. Io invece lo spronavo, forte, forte, forte… E alla fine gli ho detto: “Ma tu di dove sei? Di Harlem? Sì! E allora tirami fuori Harlem!”. Alla fine sono riuscito a motivarlo, ero salvo». Tra gli altri personaggi del cast, oltre al figlio Valerio, che interpreta il capo di una gang di spacciatori stile I guerrieri della notte, e al milanese Gabriele Rossi, già visto nella serie tv Tutti pazzi per amore (2010-2012), che fa Jacopo, ci sono anche il protagonista di L’imbalsamatore di Matteo Garrone, Ernesto Mahieux, e il giovane modello Roger Garth, che danno vita a una strana coppia metafisica, punto di contatto tra l’aldiquà e l’aldilà. L’ultima attrice a essere salita sul carrozzone di Ballad in Blood è stata Noemi Smorra. «Avevo preso prima di lei una russa bellissima, bravissima, con un inglese perfetto; però alla fine mi sono detto: “Se io metto la russa, ammazzo la protagonista, perché è troppo bella”. E allora ho scelto questa brava attrice, che ha fatto Lucia nei Promessi sposi, a teatro. Perché lei canta, balla, fa tutto. Il suo inglese è ottimo. Non ha dovuto nemmeno venire al provino. L’ho vista e le ho detto: “Domani ti faccio fare il contratto!”. è stata presa proprio all’ultimo momento, quando stavamo già iniziando le riprese».

Che cosa bisogna aspettarsi da un nuovo film di Ruggero Deodato, oggi? Un regista che ha sempre dichiarato di non amare il cinema dell’orrore, ma di essere attratto dalle storie morbose e violente? Un cineasta che ha fatto dell’effetto scioccante, del colpo allo stomaco, una cifra stilistica riconosciuta in tutti il mondo? «Mi sono sentito completamente libero nel girare Ballad in Blood», afferma Deodato,«e ho voluto raccontare quella che per me è anche e soprattutto una storia d’amore. Nella scena in cui lei lecca il sangue, che ovviamente è una citazione da Cannibal Holocaust, si raggiunge l’apice della passione che culmina in un ballo liberatorio». Per quella scena Ruggero Deodato ha pensato come commento sonoro a Sweetly, la canzone dei titoli di testa di La casa sperduta nel parco e sta tentando di ottenerne i diritti dalla vedova di Riz Ortolani e dalla casa discografica. Il riferimento a La casa sperduta nel parco non è per niente casuale come spiega il regista: «La casa sperduta nel parco e Ballad in Blood sono i due film più violenti che abbia mai fatto legati a fatti di cronaca. Il primo era ispirato al massacro del Circeo e questo all’omicidio di Perugia. Diciamo che si equivalgono come film e sono quelli che a me piacciono di più». Tornando a parlare di musiche, nel preparare la copia lavoro da far vedere ad amici e distributori – quella vista anche dal sottoscritto – Deodato ha utilizzato come musiche di appoggio quelle degli M83, le stesse usate da Stefano Sollima in Suburra: «Volevo una musica dolce da contrapporre alla violenza della storia, come avevo fatto con Cannibal Holocaust, così ho montato sopra gli M83, che andavano benissimo. Poi ho pensato a un compositore che potesse ricreare la stessa atmosfera e ho chiamato il mio amico Claudio Simonetti, che ha lavorato spesso con me. Di solito lascio molto spazio creativo ai compositori – ad esempio, non ho mai messo bocca nel lavoro di Ortolani –, ma in passato mi era già capitato con Pino Donaggio di fargli ascoltare qualcosa che secondo me cogliesse perfettamente lo spirito del film. Sapevo che quel tipo di composizione dolce poteva non essere nelle corde di Claudio Simonetti, perché il suo ritmo è quello del thriller, dei carillon alla Dario Argento; ma alla fine, dopo un primo impatto disorientante, siamo arrivati a un’intesa e lui mi ha pienamente accontentato».

Il Ruggero Deodato del 2016, splendido settantaseienne con la voglia di fare e l’argento vivo di un ragazzino di 18 anni, conscio del suo ruolo all’interno del panorama cinematografico di genere, non si è limitato a guardare solo a se stesso, ma ha voluto strizzare l’occhio anche a chi, in suo nome, ha costruito un’intera carriera. Il cammeo, infatti, che Deodato si ritaglia in Ballad in Blood è quello di un professore in sedia a rotelle al quale gli alunni riservano un crudele scherzo documentato col telefonino. Il nome di questo professore è lo stesso del regista di Green Inferno: Eli Roth, anzi, professor Eli Roth. «L’omaggio a Eli Roth», precisa Deodato, «è dovuto al fatto che, rispetto agli altri americani, che sono riconoscenti al minimo, Eli mi ha sempre manifestato la sua stima e non solo perché mi ha dedicato il suo film sui cannibali. Quando sono stato recentemente ospite a Rimini, ad esempio, l’ho chiamato e lui immediatamente mi ha mandato un messaggio vocale, molto lungo e molto bello. Poi, quando ha visto il trailer di Ballad in Blood sul sito di Nocturno, è impazzito. Fa tutte cose carine che Quentin Tarantino non farebbe mai…».