Autopsia di Salon Kitty: prima parte

Brass mette in scena una guerra nella guerra, dove Sesso e Potere, Intelletto e Sentimento, si scontrano all’ultimo sangue
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Il primo Tinto Brass, quello contestatore e politico di Chi lavora è perduto e L’urlo, termina il suo ciclo vitale con una trilogia rimasta incompiuta che doveva, negli intenti del regista, rappresentare il suo estremo attacco al potere. Secondo Brass il potere è quella cosa che corrompe l’animo e corrompe le pulsioni più “naturali” e proprie dell’uomo trasformandole in qualcosa di grottesco e artificioso. Il potere distoglie l’uomo dalle sue esigenze prime, annichilite da nuove, false priorità, e lo conduce inesorabilmente alla distruzione. La trilogia incompiuta di Brass inizia con Salon Kitty, prosegue con Caligola, e sarebbe dovuta terminare con un film sui Borgia, rimasto irrealizzato a causa delle difficoltà produttive che hanno accompagnato i primi due lavori. I problemi, per quanto riguarda Salon Kitty, furono prevalentemente legati alla censura che, considerando il film troppo “ardito” dal punto di vista sessuale, impose gravosi tagli, soprattutto nelle scene relative ai “membri eretti” degli ufficiali nazisti. Ricorda il regista: «Ormai non potevano più intervenire sul contenuto. Secondo la legge in vigore potevano intervenire sulle oscenità e il buon costume. Per la cronaca: è stata fatta una proiezione di Salon Kitty quando il film è uscito come manifestazione contro la censura. Ripa di Meana era ancora presidente della Biennale, al Palazzo del Cinema. È arrivato da Roma Gianfranco Bullo con una valigia piena di pizze. In cabina, rullo per rullo, man mano che l’operatore smontava, li abbiamo portati via perché c’era il pericolo che sequestrassero il film. Così è passato integralmente. Era un’operazione in qualche modo clandestina, perché il film era censurato».

Prodotto da Giulio Sbarigia e Ermanno Donati, nonostante le mille difficoltà, Salon Kitty uscì nelle sale nel 1975 con un divieto ai minori di diciotto anni e fu subito polemica. Il film prende spunto da un libro di Peter Norden intitolato Geheime Reichssache! Salon Kitty, ein Report, che, a metà strada tra un romanzo d’appendice e un’inchiesta storica, si proponeva di far luce sulla scabrosa vicenda del “Salon Kitty”, la casa d’appuntamento sita nel centro di Berlino, controllata dalle SS per carpire segreti militari agli alti ufficiali stranieri in visita in Germania. Un delicato episodio di spionaggio militare condotto sotto le lenzuola, che veniva indicato come un “affare segreto del Reich”. Pur mantenendo una fede “formale” al libro, la sceneggiatura, scritta a sei mani da Brass con Ennio De Concini e Maria Pia Fusco, si prende più di qualche licenza poetica nel tratteggiare i personaggi (che spesso cambiano nome e provenienza) e soprattutto nel criticare gli effetti corrosivi del potere e del fanatismo sui loro animi. A Brass, in fondo, di fare un film storico non poteva fregare di meno. Il teatrino che il regista mette in scena serve unicamente a rafforzare e codificare i suoi intenti politici. Salon Kitty si apre con immagini raccapriccianti di violenza, con una prostituta morta durante un aborto (con tanto di feto adagiato sul ventre squarciato) e un mattatoio in cui vengono sgozzati dei maiali; il tutto accompagnato da folli dissertazioni sulla superiorità della razza ariana («Gesù Cristo, del resto, visti i suoi tratti somatici, non poteva che essere tedesco»).

È chiaro fin da questi primi fotogrammi che il regista vuol sconvolgere lo spettatore mostrando che l’uomo, accecato dal fanatismo e dalla bramosia del potere, è capace delle più bieche barbarie. Un nazista, sbudellato un maiale, gioca con le sue interiora come fossero un membro posticcio con il quale simulare un rapporto sessuale con una prosperosa e gaudente macellaia. La scena si sposta poi in una casa dell’aristocrazia tedesca dove, durante una cena d’élite, i sentimenti di ipocrisia e opportunismo che animano le menti di “quelli che contano” vengono messi alla berlina. L’assioma è semplice: i soldi stanno sempre dalla parte del più forte, altro che ideologia. Esattamente quello che Visconti racconta all’inizio di La caduta degli dei (1969), solo che Brass ci mette una buona dose di autocompiacimento nel dipingere questo quadro di sublime squallore. Il regista esteriorizza quello che in La caduta degli dei era più che altro uno state of mind; e nella sua cena non c’è traccia della plasticità e della raffinatezza viscontiana. Rutti, scoregge e dita che ravanano nei denti sono, per Brass, l’espressione fisica della corruzione interiore dei convenuti, a cui si contrappone solo la rigidità formale di Margherita, la giovane rampolla di casa, il cui animo infiammato dagli ideali nazionalsocialisti la porta addirittura sul versante opposto. Ma la Margherita che ci racconta Brass in questa scena è tutt’altro che positiva: è l’emblema del fanatismo, della cieca ribellione che si trincera dietro una sorta di frigidità dei sentimenti. Il Brass “culofiliaco” di oggi direbbe che si trattava solo di mancanza di “cazzo”; ma probabilmente il Tinto di quegl’anni aveva ben altre cose per la testa.

Non che il sesso fosse altrove – intendiamoci, Salon Kitty gronda sesso ed erotismo –, ma semplicemente era uno dei tasselli del mosaico, l’elemento principe da contrapporre alle aberrazioni del potere. Il sesso, del resto, fa la sua trionfale entrata in scena quando le giovani ragazze reclutate dalle SS vengono riunite nella palestra, spogliate di tutti gli abiti e invitate, sotto gli occhi esaminatori degli ufficiali nazisti, ad accoppiarsi con giovani soldati. Scena, questa, di grande impatto visivo che verrà ripresa, in seguito, in altri film del filone “nazi”, in primis L’ultima orgia del terzo Reich di Cesare Canevari. Ma è quando le ragazze entrano nel bordello-salon che il film inizia veramente. Brass descrive il “Salon Kitty” con sincero affetto e nostalgia; memore dei suoi passati postribolari e anni luce lontano dal modello “agrodolce” di Film d’amore e d’anarchia (1973), il regista si sofferma sui giochi, sulla musica, i colori, i balletti e le scenografie. Il bordello è, come dice Kitty in preda alle lacrime dopo aver scoperto l’utilizzo improprio operato dal Reich, «una casa onesta, pulita e accogliente. Io non mi sono mai sporcata con quella merda politica. La gente può fare tutto quello che vuole a letto; il sesso è pulito»; e su questo è d’accordo anche Norden che fa dire alla sua Kitty, di fronte all’insistenza del funzionario della polizia Kuhn,: «Mio caro commissario, ormai ci conosciamo da tanto tempo, lei sa meglio di me qual è la mia attività. Siamo pronti a qualsiasi servizio, ma quello che mi chiede la Polizia è semplicemente impossibile. Io di queste cose non ci capisco niente, ma conosco il mio mestiere: noi dobbiamo render piacevole qualche ora a uomini più o meno soli… e non fare le spie!».

È questa la “filosofia del bordello” che sedici anni prima di Paprika già si insinuava nella filmografia del regista. Il “casino”, essendo il luogo dove si attua il sesso in tutte le sue forme e manie (sempre intese come gioco e quindi gioia e divertimento), non può che essere un’isola di felicità, un luogo positivo, persino puro e spirituale. Brass prova la stessa rabbia e disperazione di Kitty nel vedere il suo santuario sporcato dai torbidi giochi del potere. I microfoni nascosti nella tappezzeria sono come un cancro che cresce tra le pareti del “Salone di Kitty”, che spinge il sistema verso l’inevitabile collasso. Le finte prostitute, spinte a un mestiere che non gli appartiene, finiscono prima o poi per fare i conti con i propri dubbi e i propri fantasmi, scoppiando in lacrime o peggio suicidandosi. Quello che Brass mette in scena è una guerra nella guerra, dove Sesso e Potere, Intelletto e Sentimento, si scontrano all’ultimo sangue e il campo di battaglia è circoscritto tra le fatiscenti pareti del “Salone di Kitty”.