Apologia di The Walking Dead

Perché George A. Romero ha toppato
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Dunque, sic transit gloria Romeri (che non è un errore ma un genitivo, da Romerus, e significa “di Romero”). Così è passata la gloria di Romero a Lucca, dove pare facciano delle magnifiche lacche che si vendono a Lecco (l’avete mai visto Bionda fragola? Se no, provvedete a colmare la lacuna). Tutto si è compiuto con felicità universale. La selfizzazione dell’evento è stata massima e Frusciante (del quale non posso più dire: “Chi era costui?”, dopo i vaffanculo che mi sono preso come se fossero tram da parte dei suoi comparielli) ha avuto il suo quarto d’ora romeriano bello pieno, insieme alle resto delle truppe cammellate dell’italico horror convenute in massa presso la città celebre, prima che per l’avvento di George A. Romero, per Giacomo Puccini, Giuseppe Ungaretti e il pittore Pompeo Batoni. Quindi tutto bello, tutto figo, tutto molto cool, baci, abbracci e lingue in bocca con il padre dello zombismo moderno. Sì, quasi… Il vecchio George ha ripetuto agli intervistatori i capisaldi del suo pensiero sul mondo, sui film, sul proprio cinema. E sugli zombi, naturalmente – a proposito: siamo in Italia, “zombi” si scrive così, con la -i finale, non “zombie”. Zombie è un’americanata che qui fa ridere; siamo andati a vedere Zombi di George A. Romero, anzi di Dario Argento, mica Zombie. E Fulci ha girato Zombi 2 non Zombie 2. Sarebbe una cosa molto semplice, eppure non entra nel cervello a nessuno. Vabbè, per citare Lercio: scrivetelo come cazzo volete e andatevene affanculo… Ovviamente Romero non poteva mancare di parlare di The Walking Dead, quella serie televisiva che da sei anni a questa parte ha contribuito a rendere i morti viventi le creature orrorifiche più celebri e probabilmente più amate sul pianeta Terra.

The Walking Dead è stato – va detto con buona pace di tutti – la seconda rivoluzione copernicana  nello zombie-universe (qui sì che va bene zombie) dopo Romero. Non ci sono né ma né se né niente. Non è opinabile che TWD abbia fatto partire una nuova era. Trattasi di un dato di fatto. Beh, Romero sostiene che il serial, dopo la prima stagione, ha fatto schifo, è diventato una soap. Pare gli avessero offerto di dirigerne alcune puntate ma ha detto di no, vero o non vero non lo so. Insomma, la critica è la stessa di chi aveva coniato qualche anno fa la definizioneThe Talking Dead a significare che nella serie si parla e si parla e si parla e non succede mai niente. Sono in genere quelli che ti sfracellano i coglioni con: “il fumetto, vuoi mettere? Tutto un altro pianeta…”. E gli stessi che, spesso e volentieri, suggeriscono con l’aria di chi la sa, non lunga ma lunghissima, di guardare Z Nation, così divertente e folle e gore: parliamo di Z Nation, quell’obbrobrio dell’Asylum il cui successino è soltanto funzione della verità scritta nell’Ecclesiaste, cioè che: “Infinito è il numero degli stolti”, che tradotto in linguaggio piano significa che gli imbecilli sono incommensurabilmente di più degli intelligenti. Se ti piacciono gli zombi, se ti piace il cinema di Romero, non puoi non amare TWD. Si tratta di un assioma, non è un’opinione o qualcosa di negoziabile. TWD ci ha fatto vedere tutto quello che il cinema del buon George – per una serie complessa di motivi, a cominciare dai soldi – non era mai arrivato a mostrarci. Ci ha proiettati nella vita quotidiana del “dopo”, ha soddisfatto il nostro voyeurismo su quel che accade ora per ora, mese per mese e anno per anno nel mondo post-outbreak. E ha evitato di diventare paradossale o grottesca sollevando bufere continue di sangue, di gore (aridaje), che è poi l’unico sugo rosso della filosofia di quanti guardano, eiaculando, Z Nation o le decine di direct to dvd di merda – italiani compresi – sui morti viventi. Nonostante TWD abbia raggiunto nell’ambito degli effetti speciali, dei truccaggi dei cadaveri risorgenti, grazie a Greg Nicotero e alla sua équipe, la perfezione dell’arte.

Quindi, mi spiace caro George, su The Walking Dead toppi di brutto, tu e tuoi followers. E posso capire che ti roda un po’ il successo di TWD, visto che l’idea di fare una cosa del genere, un serial televisivo che seguisse le vicende di vari sopravvissuti all’Apocalisse ce l’avevi avuta tu per primo, tanti anni fa. Si doveva chiamare Le cronache dei morti viventi (Chronicles of the Dead), la scrivesti, da quel che so, ma non arrivò mai a buon fine e il progetto non poté trovare la quadratura del cerchio. Io ho forti dubbi che se tu l’avessi realizzata, avresti consumato gli episodi a mostrarci solo teste che esplodevano o colpi in arrivo sui corpi marcescenti dei cadaveri che camminano. O a filosofeggiare su commentari sociali e simili. Certo, ci sarebbe stato anche quello, ma con dell’altro, immagino. Nel tuo cut di Zombi, Dawn of the Dead, i personaggi passano la maggior parte del tempo a parlare. Il giorno degli zombi per metà o anche tre quarti sono dialoghi. Non è che il logos, la parola, sia sinonimo di male. Tu, comunque, il surrogato di quel serial mancato hai cercato di metterlo in piedi con i tuoi due ultimi film, Diary e Survivor of the Dead. Che a parte il sottoscritto, hanno fatto veramente schifo a tutti, compresi moltissimi di quelli che negli ultimi giorni erano lì in fila ad aspettare di oscularti il deretano. Per cui… TWD ha puntate eccellenti, puntate discrete e puntate penose – tipo l’ultimissima vista alla fine della sesta serie, dove hanno introdotto un coglione di nome Negan che non sapremo fino al prossimo ottobre se ha spaccato la testa o no a Glenn Rhee, come qualcuno ben addentro alle retrovie del serial mi ha spifferato –, come è ovvio che sia nelle quasi venti ore che costituiscono ormai ogni stagione. Ma alla fine il buono sopravanza ampiamente il brutto o il mediocre: il più è più del meno. Te lo dico convinto, caro George. E non sono certo un ragazzino nerd che ha scoperto l’altro ieri gli zombi con TWD e non sa cosa siano i tuoi splendidi film. Stay bene…