American Horror Coven

La terza stagione di American Horror Story si svolge a New Orleans tra riti voodoo e una congrega di streghe in via d’estinzione
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Le streghe di Roald Dahl è un romanzo per bambini, ma contiene più di un passaggio genuinamente terrificante, come quello della ragazzetta intrappolata dentro un quadro, con la famiglia condannata a vederla crescere e poi morire in olio su tela. Denso d’ironia, terrorizza i mocciosi elencando le caratteristiche da individuare per riconoscere le streghe: sembra che portino una parrucca (perché in realtà sono calve), indossano sempre i guanti (perché in verità hanno artigli al posto delle mani), indossano scarpe strette (per nascondere i piedi quadrati), hanno una scintilla di fuoco negli occhi e una disgustosa saliva blu.

Provate a negare che la descrizione corrisponda alla vecchia zia che non volevate mai baciare alle riunioni di famiglia (o alla maestra stronza che vi torturava a scuola). Il punto è che le streghe fanno paura soprattutto perché potrebbero essere chiunque: la vicina della porta accanto, la nonnina che vi attira con i dolci per poi rosolarvi nella stufa, l’irresistibile femme fatale che vi seduce fino alla morte, la regina cattiva pronta a sacrificare tenere donzelle per rimanere eternamente giovane. Esistono anche stregoni maschi, sì (pure a Salem ne fu bruciato qualcuno), ma, oltre al fatto che “stregone” non richiama immediatamente un’immagine negativa, l’iconografia stregonesca è una questione essenzialmente femminile, dalle persecuzioni cinquecentesche in poi.

 

LA CONGREGA

Così la nuova stagione antologica di American Horror Story, sottotitolata Coven (letteralmente “congrega di streghe”) è una questione di donne. A partire dal cast, che accanto a un’impareggiabile (e irrinunciabile) Jessica Lange, schiera due pezzi da novanta come Kathy Bates e Angela Bassett. Capitanano un cast prevalentemente femminile che va dalle veterane della serie Sarah Paulson, Frances Conroy e Lily Rabe alle ragazzine Taissa Farmiga, Emma Roberts e Gabourney Sidibe. Gli unici tre personaggi maschili di un certo rilievo (per ora: mentre scriviamo sono andate in onda in Usa le prime sette puntate) sono un maggiordomo senza lingua, un toy boy-Frankenstein incapace di parlare (realizzato assemblando i pezzi migliori di un gruppo di bellimbusti squartati), un perfetto imbecille. Di contro, i poteri delle capricciose streghette riflettono la loro personalità, un po’ come i supereroi sfigati di Misfits: la timida Zoe uccide ogni ragazzo con cui fa sesso, l’egocentrica attricetta Madison sposta le cose con il pensiero, la sovrappeso Queenie è una bambola voodoo umana, l’empatica Nan, affetta da sindrome di dawn, legge nella mente di tutti. American Horror Story non c’è mai andata per il sottile, con le metafore.

 

STREGHE DEL SUD

Ambientata a New Orleans prevalentemente ai giorni nostri (ma con incursioni storiche che vanno dall’Ottocento schiavista agli anni 20 dell’età del jazz), Coven è la prima annata a non rinchiudersi dentro un luogo paradigmatico dell’horror (la casa infestata della stagione 1, il manicomio della stagione 2) ma a distendersi attorno a una coralità di personaggi. Un luogo centrale, a dire il vero, c’è: è l’Accademia per giovani ragazze dotate di Madame Rubicheaux, che dietro l’apparenza di collegio perbene cela una scuola di magia che allo stesso tempo istruisca e protegga le giovani fattucchiere.

Perché le streghe sono qui una razza in via d’estinzione, i poteri si tramandano per linea matriarcale e la congrega di New Orleans è fatta di discendenti delle megere di Salem, migrate a sud quando le cose nel New England hanno iniziato a mettersi male. Jessica Lange è Fiona Goode, la Strega Suprema.

Alla solennità del suo titolo corrisponde una donna crudele e dispotica, ancora affascinante ma disperata davanti a una bellezza che sfiorisce giorno dopo giorno. Come nella fiaba di Biancaneve, Fiona sa che un giorno una rivale giovane e fresca le ruberà il posto, condannandola a una morte che, essendo lei abituata a disporre di un potere assoluto, è ancora più inaccettabile. Fiona cerca ansiosamente la ricetta dell’immortalità, e intanto fuma, beve e si droga come una ventenne, sbarazzandosi con nonchalance di chiunque osi turbarle la strada.

 

AMERICAN HORROR TOUR

Kathy Bates, invece, è una spietata assassina. O meglio, lo era a fine Ottocento: al piano di sopra teneva feste per l’aristocrazia della città, in cantina torturava e uccideva i suoi schiavi per distillarne il sangue in creme di bellezza. La mitologica regina voodoo Marie Laveau (un’Angela Bassett talmente sgargiante da far sospettare che conosca davvero il segreto per l’eterna giovinezza) l’ha resa immortale e poi sepolta viva per garantirle una sofferenza eterna; Fiona l’ha dissepolta e, per ironica legge del contrappasso, l’ha infilata in una divisa da cameriera.

In ogni stagione di American Horror Story compare, prima o poi, un tour “organizzato” dell’orrore: in Murder House la casa dei protagonisti era costantemente visitata dai turisti a caccia di brividi, in Asylum erano i novelli sposi Adam Levine e Jenna Dewan Tatum ad affrontare un viaggio di nozze nei luoghi più infestati d’America. Anche in Coven c’è una simile visita guidata, proprio nella casa di Madame Delphine LaLaurie (il personaggio di Bates, realmente esistito, proprio come, pare, Marie Laveau).

È l’essenza stessa della serie creata da Ryan Murphy e Brad Falchuk, accompagnare lo spettatore attraverso un campionario di topoi horror, già masticato e digerito dall’immaginario collettivo, sfogliandolo come fosse un catalogo e trasfigurandolo in attrazione da luna park.

 

E IL DIAVOLO?

In realtà, Coven è ancora meno propriamente pauroso rispetto alle precedenti annate. Tranne in qualche sporadica scena, deve rinunciare al disgusto tangibile e morboso che caratterizzava Asylum; e non riesce, o non vuole, eguagliare le atmosfere opprimenti e inquietanti che caratterizzavano i fantasmi dannati di Murder House. Il cotè gotico della stregoneria viene trasfigurato in ottica ironicamente camp (la vetta è la strega hippie Lily Rabe che ascolta i Fleetwood Mac ed è certa che Stevie Nicks sia la Suprema; ma in generale la sfida a colpi di recitazione esagerata tra tante primedonne è espressione esplicita di questa scelta di stile) e più che un horror istintuale si insegue un incubo allucinatorio (esplicitato dalle tante sequenze visivamente distorte). Un po’ come in Lovecraft, oppure, recentemente, in Le streghe di Salem.

Solo che in Coven, per ora, il più grande assente è l’unico maschio che tradizionalmente interessi alle streghe, e cioè il Diavolo (citato en passant solo da Zoe durante il rituale per “resuscitare” Kyle). D’altronde, si diceva, i poteri delle maghe si tramandano per via genetica, dunque non si è ancora sentito il bisogno di cerimonie sataniche né di evocazioni demoniache né di un bel sabba (se è questo che cercate, vi conviene rivedervi l’ottimo ultimo Rob Zombie). In compenso, abbiamo già avuto un processo, un rogo, una vagina che provoca aneurismi cerebrali, un’orda di morti viventi, un paio di riti voodoo, episodi di necrofilia e di sesso interspecie, e molto altro.

 

FRAMMENTI D’ORRORE

«C’è una dolce, piccola storia dell’orrore che è lunga soltanto due frasi: “L’ultimo uomo sulla Terra sedeva da solo in una stanza. Qualcuno bussò alla porta.”». Chi accusa American Horror Story di discontinuità narrativa, incoerenza logica, incapacità di gestire la troppa carne al fuoco, non tiene conto che spesso la paura più intima e profonda è una questione di piccoli nuclei incisivi. È vero che la serie, e ancor più questa stagione, si può guardare tranquillamente da soli, con la luce spenta, e poi andare a dormire un sonno sereno. È vero che a Murphy & Falchuck interessa di più spiattellarci l’annuale metafora sociale (in Coven, più che lo sbandierato femminismo, c’è la questione razziale: la specie stregonesca sul punto di scomparire, il conflitto tra la congrega bianca upper class e il voodoo nero di Marie Laveau, l’assassina Delphine LaLaurie che vedendo Obama in tv piange perché «Dio ha abbandonato questo Paese»), ma non è vero che l’horror manchi del tutto. Si annida in aneddoti brevi ed efficaci come quella famosa storia in due frasi che tanto piace a Stephen King. Ad esempio nell’incipit d’episodio che vede Kyle comprendere di abitare un corpo rappezzato e resuscitato riconoscendo su di sé i tatuaggi dei suoi amici morti.

L’angoscia di Coven è da cercare nei frammenti, non tiene tesa la tensione per tutta la sua durata. Sarebbe di per sé difficile nella dimensione televisiva seriale, ma è quasi impossibile con una storia come questa, obiettivamente pop e modaiola. Negli ultimi due anni si sono moltiplicate le streghe teen, sia in tv che nelle saghe cinematografiche (vedi alla voce Shadowhunters e Beautiful Creatures); basti pensare che parallelamente a Coven, va in onda una sciocchezzuola trash come Witches of East End (i casi della vita: protagonista è Jenna Dewan Tatum), praticamente un romanzo Harmony a sfondo soprannaturale. In Coven la sola ambientazione in una “scuola per streghe” rischia di vanificare ogni intento orrorifico. Ma come sempre, con American Horror Story, il vero gusto si sente quando si incomincia a stare al gioco. E si comprende che quel che perde in spavento, la serie lo recupera in sfacciata metaconsapevolezza e debordante autoironia.