Alejandro Jodorowsky

Ciò di cui non si può parlare non si deve tacere: L’arte panica dell’ultimo alchimista
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Il percorso estetico di Alejandro Jodorowsky, questo ormai ottuagenario “delinquente sacro”, come egli stesso si è più volte definito, della scena artistica internazionale, lungi dall’essere concluso e risolto, si configura come un labirinto che ha attraversato territori, movimenti, poetiche e geografie eterogenee e dalla multiforme portata. Nato a Iquique nel 1929 da padre russo (di ceppo ebraico) e madre argentina, Alejandro Jodorowsky Prullansky si trasferisce all’età di otto anni a Santiago del Cile. Le sue precoci letture caratterizzano un impulso creativo indomito che lo spinge a una febbrile attività artistica concretizzatasi da subito nella realizzazione di un teatro di burattini e nella messa in scena di opere teatrali tout court. La prima figura determinante con la quale viene in contatto e grazie alla quale imprimerà alla sua esistenza uno stile di vita errabondo è Marcel Marceu, incontro che avviene nel 1954. La condizione di apolide è il primo tratto rilevante di una personalità complessa come quella di Jodorowsky. Tutte le esperienze pantomimiche accumulate con Marceu e il desiderio avvertito come un’urgenza di cimentarsi con il mezzo cinematografico confluiscono nel delizioso cortometraggio ritrovato La cravate o Les têtes interverties, sorta di pantomima filmata derivata da un racconto di Thomas Mann, in cui notiamo ab initio due elementi già costitutivi del futuro cinema di Jodorowsky: il recupero di una magia primigenia, méliesiana, del costrutto rappresentativo (con tanto di genuina cura per l’effetto speciale) e la deflagrazione cromatica (pensiamo alla caleidoscopica composizione delle scene di La montagna sacra, o l’orgiastico affresco à la Siqueiros a dominante rossa di Santa Sangre).

La consapevolezza congenita dell’essenza di artista unita alla presunzione propria del genioide inducono Jodorowsky a una specie di “ritorno alle origini”, di reditus alle radici sudamericane, per cui decide di transvolare in Messico con la compagnia di Marceu e nel suo anno di permanenza (anche se poi vi tornerà a più riprese per circa un decennio) istituisce un laboratorio teatrale fertilizzando un terreno vergine come quello messicano col suo irruente semen.

L’arrivo alla Gar du Nord di Parigi e la subitanea telefonata in piena notte a un addormentatissimo e impantofolato André Breton per annunciare il suo proclama di salvazione del surrealismo non conducono Jodorowsky ad accomodarsi ai tavolini della Proménade de Venus ma lo portano qualche tempo dopo a fare la conoscenza di altre due personalità inquiete della scena culturale parigina, Fernando Arrabal e Roland Topor. Nasce nel 1962 il movimento-non-movimento “Panico”. Burla suprema ai danni della cultura, come fu definito dai tre fondatori, trappola affilata per menti accademiche sclerotizzate nelle secche del loro arido sapere, provocazione post-surrealista finalizzata a detronizzare il côté pateticamente serioso dell’arte tutta, che sia come sia, scherzo o affare serio, ha comunque gettato i presupposti teorici delle attività di questi tre signori.

Se la declinazione di matrice smaccatamente surrealista nel caso di Arrabal, le recrudescenze Dada da parte di Topor, hanno costituito le basi deossiribonucleiche dell’arte di costoro (teatro, cinema, letteratura), per quanto riguarda Jodorowsky c’è stato sempre un “oltre”, un fattore differenziante, un pragmatismo dell’atto come profferta di una via di fuga da qualsiasi ingabbiamento della concettualità che avrebbe consentito di giungere al di là del surrealista sovvertimento dei valori e della decostruzione dadaista. Motivo per cui ciò che ha unito Jodorowsky, Arrabal e Topor, li ha anche divisi, differenziando e separando la loro rispettiva concezione del “panico”. D’altronde la loro esigenza di divertissement, al contrario della programmatica protocollarità di Breton, Aragon, Soupault, e in seguito Ernst, Dalì, etc. che impose un primo Manifesto Surrealista nel 1924 e altri a seguire, non generò nessun documento con valore di decalogo coercitivo o precettistico in seno al Panico, semplicemente una serie di scritti, perlopiù carteggi interpersonali, con impresse alcune linee concettuali sul significato del modus panico. Un’attitude, un modo di essere e di fare. Comunque, preso con estrema serietà, come si deve fare con il più importante dei giochi, proprio perché come aveva insegnato il Surrealismo il riso e il gioco sono una cosa seria, e ogni arte o è estrema, o non è.

Il Panico, e la lucida consapevolezza del suo significato e della sua valenza, diviene per Jodorowsky momento cruciale per la sua espressione artistica, fase teorica attraverso cui è in grado di (s)fondare un modo innovativo e rivoluzionario della rappresentazione artistica. Quello che per la sua fino ad allora artaudiana rappresentazione dell’atto, a partire da questo momento diviene atto della rappresentazione, e tutto ciò dà luogo all’ “effimero panico”. Non si può pretendere di conoscere l’ars jodorowskyana, dal teatro al cinema alla psicomagia, se si prescinde dall’effimero panico, che innanzitutto è un’esperienza vitale, organica, percepita, sentita e consumata nel momento stesso in cui avviene, si da. È fondamentalmente un happening, nel quale un corpus (organico o inorganico, oppure organico e inorganico) si dinamizza relazionandosi con altri corpi in uno spazio scenico che può essere ovunque, in un obitorio in presenza della salma mortuaria come su un set cinematografico.

Nel 1965 presso il Teatro del Centro Americano degli Artisti di Parigi si assiste alla mise en scène di un effimero panico della durata di circa quattro ore basato su un canovaccio di base composto dalle pièces Amori impossibili di Arrabal, Melodramma Autosacramentale di Jodorowsky e La donna nuova di Topor, in cui Jodorowsky, “bidonato” da Arrabal e Topor all’ultimo istante, porta sulla scena ettolitri di sangue, carcasse di animali, bestie vive di ogni genere, acrilici e vernici a profusione, rappresentando una sequela ininterrotta di performance sessuali, crocefissioni profane, scontri fisici con corpi belluinamente urlanti, scuoiamenti ferini. Questo Melodramma Autosacramentale, nome con cui passerà alla storia, è per l’appunto una actio dramatica in cui l’homo diviene sacer a se stesso istituendo il cerimoniale della rappresentazione. Da questo momento in poi il “panismo” di Jodorowsky è una liturgia teatralizzata, o meglio una liturgizzazione dell’atto che coinvolge tutto e tutti i presenti (regista, crew, attori e spettatori) in un’unica e medesima scena, riproducibile ma non ripetibile, e che soprattutto produce una trasformazione di attori e astanti, coagulata nell’espressione “tirar fuori il teatro dal teatro”. Laddove la non ripetibilità dell’evento hic et nunc fa capire perché Jodorowsky auspichi un’arte sottoposta al tempo, non immortale, caduca, effimera, che avviene e si consuma nel momento in cui è, che non necessita di essere immortalata dai mezzi di riproducibilità tecnica.

Anche il cinema non sfugge a questo presupposto, nonostante appaia come l’emblema dell’eminentemente riproducibile, poiché secondo Jodorowsky le pellicole dei suoi film possono essere tranquillamente bruciate come il protagonista di El topo una volta raggiunto il suo scopo, ovvero una volta girata la scena. E il montaggio delle sequenze è un nuovo atto panico scaturito dalla volontà dell’autore.

A partire da Fando y Lis, rielaborazione arrabaliana di motivi lautréamontian-surrealisti realizzato da Jodorowsky nel 1968, cos’è il cinema di Jodorowsky se non una meta-rappresentazione di un effimero panico, nella quale un atto plurale, composito, costituito da una serie di atti, viene prolungato, drammatizzato in forma narrativa, prolungata, sotto le spoglie di iter iniziatico a una metamorfosi che coinvolge metatestualmente personaggi della diegesi, interpreti, assistenti di scena e spettatori? È, in fin dei conti, quella di Jodorowsky, un’operazione semantica scaltra, immortalata nella famigerata ultima sequenza di La montagna sacra, per cui il cinema diventa questa zona liminare tra realtà e finzione da attraversare, una membrana da squarciare, un’imene da deflorare per essere la verità di una finzione, ossia la verità di un atto fittivo eseguito per davvero, che deve però nella sua mimesi rappresentativa/ri-presentativa mutare coloro che ne restano coinvolti. Da questo nucleo tematico possono poi partire tutte le derive che si vogliono sui variegati misticismi di cui Jodorowsky per studio e passione personali è rimasto imbevuto, dal neoplatonismo rinascimentale alla kabbala ebraica, dal sufismo al buddismo tantrico, dalle cui simbologie il suo cinema rimane riccamente impregnato. Un corredo di saperi che esemplarizzano l’importante aspetto trasformazionale dell’evento panico (dal teatro al fumetto allo psicodramma), e rendono Jodorowsky l’unico autentico alchimista della post-modernità.